Un artista che sa unire il mestiere alla creatività

Silvana Nota

 

Voci

Marzio Pinottini

La penombra che abbiamo attraversato

Gianfranco Peiretti appartiene alla generazione che Stenio Solinas ha descritto nei suoi dissacranti pamphlets: Macondo e P38 (Milano, Società Falco Editrice 1980) e C’eravamo tanto a(r)mati (Roma, I sette colori 1981). Alla generazione di coloro, cioè, non disposti a ripetere l’allegoria borgesiana di Juda Leon, rabbino praghese che, avido di sapere quel che Dio sapeva creò un bamboccio cui diede il nome Golem che avrebbe dovuto imparare le regole dell’Universo e a cui a mala pena riuscì a insegnare a spazzare la sinagoga.
Se ne è uscito indenne, lui, giovane di belle speranze e per di più con una laurea in architettura in tasca, lo si può solo spiegare ricordando il sonetto II.2 dei Sonetti ad Orfeo di Reiner Maria Rilke:

«Come il maestro nell’impeto a un foglio 
qualunque affida la linea perfetta
così talvolta lo specchio raccoglie l’unico volto di giovinetta.
Quando al mattino da sola si ammira
o nel chiarore del lume sommesso…
cadrà più tardi nel puro respiro
dei veri volti solo un riflesso.
Quel che tra braci fu un giorno veduto 
nel lento spegnersi fuligginose.
Sguardi di vita per sempre perduti.
Oh, della terra chi sa gli smarriti
beni? Chi solo con note gloriose
celebri il cuore cui tutto dà vita»

La poesia è infatti un evento che accade, che sempre di nuovo inaspettatamente si ripresenta, è un dono dei pochi ai molti che appartiene al mistero dell’Universo.
Se si dovesse indicare un ascendente in ambito letterario, bisognerebbe fare il nome di Lewis Carroll, l’autore di Alice nel paese delle meraviglie, per il quale il non-sense diventa l’emblema araldico della logica che si fa poesia, per il quale l’ésprit de géometrie diventa ésprit de finesse.
Pascal con le ragioni del cuore contro la fredda lama d’acciaio della raison illuminista: ecco l’orizzonte in cui occorre iscrivere il versicolore prisma attraverso cui questo giovane artista proietta la propria ricerca. Un giovane che per impalmare la pulzella dell’arte ha lasciato alle ortiche i lividi sentieri battuti dagli impazienti yuppies degli anni ’80 o i comodi viadotti degli impertinenti ex-sessantottini oggi perfettamente integrati nei vari mass-media, pronube of course le varie sinistre pseudo-progressiste locali. Peiretti, dopo aver abbandonato i giardini ingemmati della sua personalissima art fantastique degli anni settanta, che non può non rammemorare Tolkien, è approdato ad una originale sintesi di concretiamo neoplasticista in cui il dato naturalistico è trasfigurato in un rigoroso costruttivismo, nel quale la saturazione cromatica diventa il vettore fantastico per una ricerca dell’assoluto. Una ricerca che ben sintetizza questa citazione dal suo livre de chevet: «La Bhagavad-gˇitã così com’è» di Sua Divina Grazia A. C. Bhaktivedanta Swami Prabhup ̄a da: « Ma c’è nel corpo, un altro beneficiario, che trascende la materia: è il Signore, il Proprietario Supremo, Testimone e Consenziente, che si chiama Anima Suprema » ( XIII.23 ).
Un bagno purificatore dopo la lunga, troppo lunga penombra, attraversata negli anni di piombo, che lo legittima come qualificato erede del cromoideismo plastico teorizzato a livello planetario da Carlo Belloli.

Marzio Pinottini
Torino, 24.02.1989

Angelo Dragone

Peiretti, tra progettuale e trasgressivo

C’è chi tuttora opera convinto che l’arte possa nascere da una sorta di emulazione visiva rispetto ad un motivo scelto, vero o non, e più d’uno negli ultimi decenni si è dedicato persino al rivestire le altrui invenzioni, ribattezzando questo lavoro, alla stregua di una originale tendenza creativa, come “rivisitazione”, ‘citazionismo’ e altre analoghe definizioni. Gianfranco Peiretti è, invece, di quelli che soprattutto s’interrogano: si direbbe, anzi, ch’egli guardi dentro di sé, come per attingere dal proprio inconscio, ma per sondare insieme ogni geometrica potenzialità propria delle strutture visive alle quali è portato a dar vita, nel momento stesso in cui, a suo modo, giunge a dar loro progettuale consistenza, facendo leva sui formali elementi compositivi, calati tra luce e ombra, con un occhio attento all’armonia delle loro interazioni. Dove ‘a suo modo’- tanto vale dirlo subito – significa, in maniera essenziale, con una libertà comprensiva anche di una sua esigenza di trasgressione.
Così conobbi subito Peiretti, incontrandolo l’anno scorso davanti ai suoi dipinti: i colori acrilici scelti per le proprietà e qualità materiche rispondenti ai suoi fini, in virtù delle seriali gamme tonali cui il ben timbrato codice cromatico poteva rimandare, evitando i risonanti ‘ripieni’ e le saturazioni, per privilegiare le più rare e delicate sfumature (ottenute con l’accostamento di successive campiture), temperandole tono su tono, nelle misurate gradazioni. Ma spesso anche componendo tra loro i diversi effetti tridimensionali, giocati su cubi aperti e virtualmente compenetrati da altre forme plastiche per raggiungere anche più complesse formulazioni spaziali riprese e variate (come nel trittico) sul filo d’una rotazione combinatoria.
Fu in quell’occasione che gli feci balenare, quasi provocandolo, l’idea di cercare con quello stesso suo gusto attento e l’abituale meticolosa limpidezza di dettato, le inedite equivalenze espressive d’una tecnica incisoria che sarebbe potuta essere, come è stata, l’acquatinta.
Circa il modo di affrontarne più propriamente la realizzazione tecnica, si può aggiungere come tra consigli e intuito personale non abbia tardato a volgersi, tra i medium, alla resinosa colofonia, così da trarne gli effetti più fini e lievi, con il sommarsi delle morsure e gli esiti che paiono graficamente trasparenti, impalpabili, sì che ogni forma sembra trattener una sua luce, anch’essa stratificata in assorte profondità. Spinto tuttavia dall’impulso vivo del suo ricercare, egli non ha mancato di cimentarsi altrimenti, con il nudo ferro della puntasecca, e le ritrovate trame segniche care alla sua ispirazione progettuale, ma di cui altra volta vorrà forse scoprire l’approdo, non appena ne avrà completato le verifiche delle scelte tecniche e della loro più efficace messa a punto formale.
La mostra comprende, dunque, una ventina di dipinti, datati dell’ultimo quinquennio, fino al recentissimo Grigiotrittico, e la suite delle sue prime sette acquetinte, impresse con esemplare perizia da Isidoro Cottino, nelle quali l’apparente rigore dell’invenzione strutturale – e non sono mai forme inerti, o semplicemente decorative – lascia trasparire il vitalistico suo spirito anticonformista. Ed è quanto si coglie in certe lievi (volute) infrazioni, negli appena percettibili sfasamenti, o spaesamenti, persino in quelle contraddizioni formali che creano inattese, quanto sommesse, tensioni espressive. Senza, in ogni caso, intaccare quell’atmosfera tutta pervasa dall’autentico esprit de finesse che distingue ogni opera di questo ideatore di calibratissime figurazioni oggettuali, dalle immagini tipiche d’una visione tridimensionale, tipicamente architettonica.
Nei dipinti come nelle incisioni, però, non è l’architetto ad esprimersi, ma il ricercatore di poetiche forme espressive, quasi ricordasse ad ogni passo Carlo Belli che aveva scritto: “L’arte è al sevizio di se stessa. L’arte è”. Si direbbe, infatti, ogni volta, come Peiretti abbia puntato sull’invenzione e l’applicazione di una propria metrica spaziale (affine, ma diversa, in quel suo sottrarsi alla regola, dai modelli costruttivi dettati da una matematica tradizione prospettica), proprio per quella consapevole licenza trasgressiva che fa parte dell’autentico suo comportamento culturale.

Angelo Dragone
Torino, agosto 1990

Lucio Cabutti

Alle maggiori altitudini crescono più fiori blu; e le stesse specie di certe piante (come la genziana) che al margine delle nevi eterne assumono tale colore, quando germinano nel più favorevole calore delle pianure tendono a un colore biancastro, perché meno ricche di antocianine. Gianfranco Peiretti ama il blu, e pare condividere questo configurarsi
del colore in una pigmentazione vegetale dei succhi cellulari come segno di avvicinamento alle vette e al cielo: anche nelle sue opere la vitalità del colore tende a liberarsi da ogni “gravità” metaforica o descrittiva per librarsi nell’ambiente, rarefacendosi in una trasparenza che diventa, insieme, cangiante delimitazione e percepibile continuità. A una rarefazione materica, del resto, è dovuto anche l’azzurro del cielo, provocato dal fenomeno ottico della diffusione: come per un colore degli occhi o del fumo di una sigaretta, l’effetto appare quando la luce incidente sulla superficie di un corpo viene rinviata in tutte le direzioni proiettandosi su uno sfondo scuro. E nel caso dell’atmosfera, la luce solare viene diffusa da particelle di polvere dimensionate sulla stessa lunghezza d’onda del blu, che visualizzano perciò una luce azzurra sul buio dello spazio cosmico: così nel 1957 in Canada, quando diversi incendi avevano aumentato la quantità di particelle sospese nell’aria, anche la luna si tinse lievemente ma percepibilmente di blu per questa velatura atmosferica, come nel traslato di un poeta visionario o di un artista fantastico.
Peiretti moltiplica i suoi blu attraverso strutture geometriche movimentate da precise metamorfosi, ma li organizza anche nei termini di una fluidità atmosferica che ritrova il senso probabilistico e la turbolenza degli eventi naturali. Nella sua mostra personale all’Artìfex, galleria aperta all’interazione fra l’arte e l’ambiente, la sala dell’installazione costituisce il risultato più esteso ed intenso di questo concretarsi della creatività in uno spazio e in un tempo reali, che diventano campo e istantaneità di confronto fra il vissuto e il contemplato. Nel progetto come nell’attuazione dell’opera, la connessione fra pittura e scultura oltrepassa i limiti tramandati dalla consuetudine e si dilata fino alla totalità di un “environment” leggibile e sperimentabile in una molteplicità di percorsi liberi virtualmente infinita.
Lo spettatore diviene visitatore, entra nel contesto inventivo del fare artistico e ne determina itinerari “dromoscopici”, ossia visioni in movimento, sequenze di percezioni che egli può conoscere, e anzi scegliere con l’intuito interpretativo del critico e dell’attore, attraverso il proprio orientarsi e spostarsi nell’ambiente.
Dal pubblico agli addetti ai lavori e all’artista stesso in quanto fruitore della propria opera, chiunque può quindi immergersi in questa creatività “environmentale” e individuare fra progetto e comportamento, come nell’osservazione subacquea di un abisso ignoto, una realtà profondamente arcana oltre le sue più limpide e consapevoli parvenze: quella della interazione fra la quotidianità della vita e la risonanza lungimirante ed emozionata dell’arte, fra lo spazio vissuto dell’esistenza e lo spazio codificato, scenico e alieno, della struttura formale. “Solo un aspetto dell’opera è immediato”, scriveva Robert Morris nel lontano 1966 a proposito, appunto, dell’esperienza della scultura nel tempo: “la percezione della Gestalt”; e Robert Smithson osservava come il “deserto” di Malevicˇ fosse diventato una “Città del Futuro”. Soltanto sette anni prima, un fautore dell’arte come aspetto della comunità, Victor Vasarely, aveva proclamato che “l’artista è un ottimo costruttore della città policroma, multiforme e solare, l’arte è plasticità pura, salute e gioia, qualità sensoriali che arrivano al mondo nei numeri progressivi”.
Nei termini di questo orizzonte estetico spaziante dalla società alla struttura e alla natura si sono sviluppate le ricerche e i lavori di Peiretti dal 1984, dopo le prime prove come pittore di gusto tradizionale e un secondo momento polarizzato da sollecitazioni surrealiste e fantastiche; ma oggi la sua presenza caparbiamente individuale, anticonformista e sottilmente provocatoria risulta più consonante con le istanze epocali delle ultime generazioni che con gli antecedenti remoti della sua poetica. Il suo spirito matematico non emerge dalle chiare, fresche e dolci acque di una metodologia estetica anestetica, geometricamente asettica, ma da un coinvolgimento emotivo, esistenziale e operativo che rivendica i valori del sentimento lirico, della pregnanza vitale e della manualità febbrile e febbrile nella realizzazione concreta delle opere: anche i molti metri quadrati del tulle adoperato nell’environment all’Artìfex sono stati dipinti a mano, con qualche difficoltà tecnica, nelle sue diverse tonalità.
La sua formazione è avvenuta attraverso molteplici ed eterogenee esperienze: studi, fra l’altro, alla Scuola Allievi della FIAT (dove poi ha lavorato come modellatore in legno alle fonderie e in gesso al Centro Stile), al Politecnico di Torino fino alla laurea in architettura, altri lavori come pubblicitario, impiegato statale, insegnante di educazione artistica, e viaggi in Europa, Africa, Asia. L’eredità costruttivista e concreta delle avanguardie storiche e quella razionalista egemonizzata dall’architettura, l’arte programmata e cinetica profetizzante l’avvento dell’estetica informazionale coincisa con l’attuale rivoluzione elettronica (affiancata anche da contributi minimalisti e concettuali), e la sensibilità ambientale che ha trionfato nell’edizione 1992 di Documenta a Kassel, sono tra le componenti primarie della sua visione: giustamente la Fondation Vasarely ha conferito nel 1990 un avallo internazionale a Peiretti ospitando una sua significativa mostra personale.
Accanto all’environment, l’artista è inoltre autore di sculture, dipinti, disegni, incisioni e oggetti combinatoriali per la costruzione di insiemi policromi estremamente variabili: nel suo repertorio compaiono infatti anche altri colori, oltre al prediletto blu, e trovano nella trasparenza di origine cubofuturista, e di mediazione astratta, la possibilità cromatica più interattiva nei confronti dell’ambiente, dove i giochi delle luci e delle ombre proiettate creano ulteriori apparizioni virtuali delle strutture. Nel ritmico contrappunto tra forma e ambientazione, l’accento cade quindi su questa “naturalezza” di una creatività mutevole e vivente, più che assolutisticamente surgelata. Così la vocazione del colore svela affinità elettive con i fiori d’alta montagna, il cielo, la luna velata dagl’incendi, le nuvole e il mare. Peiretti appartiene a quella comunità europea sovratemporale dei cultori del blu che comprende Novalis e Stéphane Mallarmé, Picasso, Yves Klein e molti altri: la sua nuova geometria coincide con una appassionata coscienza, e conoscenza, di libertà.

Lucio Cabutti
Torino, 1992

Silvana Nota

Il concetto di “flesso” e un “blu ostinato”, sono i punti focali dell’appassionata e accanita sperimentazione di Gianfranco Peiretti, la cui opera esprime un’inconsueta bellezza alla luce delle seconde avanguardie cui si ascrive. Nel loro raccontare i disagi della società moderna e la fatica interiore esistenziale, non pochi “autori” hanno guardato infatti all’Arte Povera come alla Bad Painting americana, facendo del “brutto” un linguaggio preciso, una filosofia estetico-formale da cui quasi inconsapevolmente prende distanza l’artista moncalierese, brain storming di sentimenti, afflati sofferti e filtrati tra mente e cuore. Il patrimonio dell’esperienza antica, accostata in parallelo al senso storico del vivere contemporaneo, lo portano alla manipolazione di un ampio ventaglio di materiali: dai più tradizionali ai più “dernier cri”; dai più morbidi e delicati da trattare, ai più duri e severi nel loro impatto ancestrale.
La produzione del suo atelier propone infatti la fusione degli opposti, con passaggi che spaziano dalle sensazioni di fragilità del tulle alla freddezza del marmo; dal calore del buon legno agli inquieti ritrovati di impronta techno; dalle plastiche più gelide ai gessi plasmati e lavorati secondo procedimenti unici. In sostanza, un’officina di idee e di nuovi confini da superare. Peiretti opera esprimendosi a tutto campo e dunque infrangendo le barriere della pittura e della scultura, per approdare a opere che ne coagulano le discipline.
L’area astratta del geometrismo potrebbe sembrare il suo vocabolario, tuttavia i suoi “pezzi” vanno ben al di là del freddo cerebralismo. Anzi, si aprono facilmente all’interpretazione stratificata. La perfezione delle campiture cromatiche in trasparenza, la meticolosità delle linee e delle architetture cercate a mano libera (e una fatica fisica unita all’esigenza di tecnicismo virtuosistico) disegnano il ritratto di un artista che sa unire il mestiere alla creatività.

Silvana Nota
Moncalieri, 1997